venerdì 3 gennaio 2025
Poco prima delle vacanze natalizie, media e social network si sono scatenati sulla presunta pericolosità di utensili da cucina, stoviglie e giocattoli in plastica di colore nero, additati come tossici da uno studio scientifico pubblicato sulla rivista Chemosphere.
I ricercatori avevano infatti individuato un elevato potenziale di esposizione ai ritardanti di fiamma bromurati in molti degli articoli analizzati, ben oltre le soglie ammesse dalle autorità di controllo. Additivi che sarebbero potuti provenire da materiale riciclato da RAEE.
Diffuso senza controllo, spesso senza neanche aver letto l'abstract dello studio, l'allarme si è diffuso in modo virale.
Visto che la scienza possiede gli anticorpi che i social network non hanno per garantire che le bufale non si trasformino in leggi della natura, qualcuno si è presto accorto che l'impianto dello studio si basava su un banale errore di calcolo della dose di riferimento considerata sicura dall'EPA (Environmental Protection Agency).
Gli autori dello studio, non senza leggerezza, avevano stimato il limite giornaliero sicuro per un adulto di 60 kg in 42.000 nanogrammi, anziché 420.000 nanogrammi (7.000 nanogrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno), sovrastimando il rischio di dieci volte. Di conseguenza, quasi tutte le concentrazioni rilevate nei prodotti analizzati - pari mediamente a 34.700 nanogrammi - risultavano potenzialmente tossiche per l'uomo, mentre l'esposizione stimata si collocava ben al di sotto del limite considerato sicuro, ovvero meno di un decimo della soglia di sicurezza.
Inoltre, a conti fatti, lo studio evidenziava una contaminazione da ritardanti di fiamma in meno del 10% dei 203 prodotti domestici esaminati, e solo nell'8% dei 109 utensili da cucina considerati.
Se l'errore su cui sono inciampati i ricercatori può essere considerato un incidente scientifico, le ripercussioni mediatiche sono state ben più gravi e durature. La pubblicazione dello studio ha generato titoli sensazionalistici, che invitavano i consumatori a sbarazzarsi - e in fretta - degli utensili in 'plastica nera'. E non è bastato il mea culpa dei ricercatori, poiché questo non ha avuto la stessa visibilità mediatica del primo lancio, più virale poiché allarmistico e quindi di maggiore presa sul grande pubblico. Il risultato è che il comune cittadino, intimorito dall'allarme, continuerà a nutrire diffidenza nei confronti di questi prodotti, a prescindere dalle evidenze scientifiche, di cui probabilmente non verrà a conoscenza o, se informato, non sarà in grado di valutare.
In un simile effetto incorrono anche pseudo-studi sulla pericolosità delle plastiche, soprattutto nel caso delle microplastiche, spesso diffusi in modo superficiale attraverso social network o articoli su media generalisti, senza fornire il contesto o le minime nozioni necessarie per interpretare correttamente i dati.
La scienza ha come suo fondamento l'autocorrezione: errori possono sempre accadere, ma al suo interno ha anche gli strumenti per identificarli e rettificarli. In questo caso, gli autori hanno prontamente riconosciuto l'errore e pubblicato una correzione. Tuttavia, è fondamentale riflettere su come comunicare le nuove evidenze al grande pubblico, per evitare che l'allarme iniziale continui a diffondersi.
Questo caso sottolinea come, in un mondo dove l'informazione è diffusa, istantanea e sempre meno filtrata da esperti, siano necessarie rigorosità nella ricerca, una maggiore responsabilità dei media nell'alimentare il sensazionalismo e l'educazione del pubblico, che deve sapere che la scienza è un processo iterativo, dove errori e correzioni sono parte integrante del progresso.
L'individuazione e la correzione di un errore sono sempre un punto a favore per il metodo scientifico, ma diventano inefficaci se non vengono comunicate nel giusto modo. La fiducia nella scienza dipende anche dalla capacità di gestire queste iterazioni con trasparenza e responsabilità.