14 gennaio 2025 11:51
Bene, ma non benissimo: potrebbe essere questo il giudizio in sintesi del riciclo della frazione organica del rifiuto urbano (Forsu) in Italia.
Se, infatti, siamo tra i paesi più virtuosi a livello comunitario nella raccolta differenziata di questi rifiuti, il successivo trattamento a fini di riciclo mostra ancora delle criticità e una distribuzione non omogenea delle capacità e dell'efficienza a livello nazionale.
È quanto emerge da uno studio commissionato dal Consorzio Biorepack al Dipartimento di Ingegneria Civile e Informatica dell’Università di Roma Tor Vergata, guidato dal professor Francesco Lombardi. Studio che ha riguardato 112 impianti di riciclo organico, su un totale di 358 siti, che nel 2022 hanno trattato circa 4,8 milioni di tonnellate di Forsu, pari al 96% del totale.
Gli impianti sono stati valutati in base a tre “scenari di efficienza”, a seconda della capacità di eliminare dal processo di trattamento i materiali non compostabili (in particolare plastiche tradizionali, vetro, alluminio e altri metalli) senza scartare al tempo stesso una quantità eccessiva di rifiuto umido e bioplastiche compostabili, destinati a essere trasformati in compost.
I ricercatori hanno trovato che solo 7 Regioni possiedono impianti in grado di minimizzare gli scarti non compostabili e valorizzare al meglio la frazione organica. Al contrario, in 5 Regioni (tra cui Lazio, Campania e Trentino Alto Adige) nessun impianto soddisfa i requisiti minimi di efficienza assunti nello studio.
A livello nazionale, a fronte di un valore di materiali non compostabili presenti nel rifiuto organico in ingresso agli impianti del 7,1%, il tasso medio di scarto prodotto dagli impianti di trattamento organico è pari al 21,9%, valore ancora lontano dalla soglia del 15% ritenuta come obiettivo da raggiungere.
Se si considerano le prestazioni dei singoli impianti, sui 112 considerati dallo studio solo 22 mantengono gli scarti al di sotto del 10%; in altri 9 il tasso di scarto è compreso tra il 10 e 15%, in ulteriori 14 è tra il 15 e il 20%. I restanti 67 sono tutti sopra al 20%.
In termini economici - sottolinea lo studio - una produzione di scarti maggiore del 15% rispetto al rifiuto trattato risulta economicamente non sostenibile, considerando che le attuali tariffe medie per lo smaltimento degli scarti sono, nella migliore delle ipotesi, circa il doppio di quelle del ritiro del rifiuto organico.
Un impianto che abbia una produzione di scarti superiore al 15% genera verosimilmente un conto economico in perdita rispetto al processo di riciclo organico. Inoltre, valori superiori a questa soglia non contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi europei sull’effettivo riciclo dei rifiuti.
Per quanto concerne la presenza di imballaggi in bioplastica, lo studio indica che non vi sono problemi gestionali negli impianti che presentano un elevato indice di riciclo, ossia con alta efficienza degradativa. In tali contesti - si legge nel documento -, "le bioplastiche rappresentano una indubbia risorsa in quanto contribuiscono ad aumentare la quantità di materiale avviabile a riciclo, diminuendo allo stesso tempo gli scarti di processo".
Eventuali problemi sorgono - e non solo per le bioplastiche - quando gli impianti sono scarsamente efficienti: in questo caso, infatti, “le bioplastiche vengono scartate insieme ad altre matrici biodegradabili (come gusci di frutta, di uova, ossa o valve di molluschi), oltre che alle plastiche tradizionali e altri materiali non conformi, ragion per cui sono spesso ritrovate non degradate negli scarti”. I ricercatori di Tor Vergata ritengono quindi che: “la loro eliminazione dal processo di trattamento è una mera conseguenza delle inefficienze di tali impianti”.
“Biorepack ha deciso di commissionare questo studio, con un obiettivo principale: verificare le modalità di gestione delle bioplastiche compostabili all’interno del processo di trattamento dei rifiuti organici - osserva Carmine Pagnozzi, direttore generale del Consorzio (nella foto) -. Decisamente eccessive e pretestuose sono state infatti negli ultimi anni le accuse su una presunta incompatibilità tra le bioplastiche compostabili e i siti di trattamento organico”. "In questo senso, l’analisi ha confermato che il comportamento dei rifiuti in bioplastica compostabile è del tutto analogo a quello del resto dell’umido domestico che viene riciclato all’interno degli impianti".
Lo studio avanza anche una serie di azioni da adottare per ridurre il conferimento in discarica dei rifiuti organici. Da un lato, si sottolinea l’importanza di ridurre la presenza dei materiali non compostabili che “sporcano” l’umido. Fondamentali sono in questo caso le iniziative di comunicazione, sensibilizzazione ed educazione della cittadinanza.
Altrettanto utile è investire su sistemi chiari di etichettatura dei rifiuti compostabili e applicare tariffe di ritiro e trattamento variabili in funzione della minore o maggiore presenza di materiali non compostabili nella Forsu, come già fa il consorzio Biorepack con i Comuni convenzionati.
È anche importante ottimizzare, all’interno degli impianti, i processi di separazione dei rifiuti non compostabili, così da limitare al minimo il rischio di “trascinare” fra gli scarti le matrici organiche.
È invece da evitare la separazione dei materiali non compostabili a inizio processo, “in quanto il loro asporto da una massa di rifiuti ancora molto umida comporta l’inevitabile rimozione anche della sostanza organica che tende a restarvi adesa. Uno scarto con alta fermentescibilità risulta tra l’altro di difficile collocabilità in discarica. E soprattutto si tratta di rifiuto in buona parte riciclabile in compostaggio".
Altrettanto cruciale è rispettare le tempistiche di trattamento organico in funzione dell’obiettivo finale di arrivare a produrre compost di qualità. “Ai fini del processo - spiegano i ricercatori di Tor Vergata - sia l’efficienza di riciclo che la qualità dei prodotti finali sono strettamente legati ai tempi di durata del biotrattamento". Le indicazioni italiane e comunitarie indicano che, per gli impianti solo aerobici, la durata minima non può essere inferiore a 9-10 settimane. Per quelli integrati (anaerobici-aerobici) la durata della sola fase di compostaggio è invece stabilita in 30-45 giorni.
Occorre, infine, che i gestori di rifiuti nei singoli Comuni ammettano nella raccolta della Forsu tutte le matrici biodegradabili, “compresi noccioli di frutta, gusci di uova e di molluschi, sfalci e potature nonché i manufatti compostabili, che la ricerca conferma essere assolutamente trattabili negli impianti di compostaggio al pari di qualsiasi rifiuto organico”. “Va invece evitato di selezionare solo quelle matrici ritenute più facili da trattare per produrre energia nella fase anaerobica del processo”, poiché questo approccio non è funzionale all’obiettivo finale: riuscire a valorizzare al massimo la Forsu per produrre sia energia sia compost, in modo da chiudere il ciclo del carbonio, riportare fertilità nei suoli agricoli e limitare al minimo la quantità di rifiuti inviati in discarica.
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