Audizione con la Commissione Ambiente della neonata associazione dei produttori e trasformatori di bioplastiche.
29 giugno 2011 07:31
Appena nata si è già ritagliata uno spazio nel complesso agone istituzionale. Stiamo parlando di Assobioplastiche, Associazione Italiana delle Bioplastiche e dei Materiali Biodegradabili e Compostabili costituita nelle scorse settimane da Novamont, M&G Polimeri, da una manciata di trasformatori di biopolimeri e dal CIC, Consorzio Italiano Compostatori. Le finalità, si legge nel sito Internet, sono quelle di promuovere la conoscenza e l’uso corretto e sostenibile dei manufatti prodotti con bioplastiche, favorire la diffusione di informazioni, promuovere ricerche e studi di settore, diffondere la conoscenza degli standard relativi alle bioplastiche. L'Associazione è stata ascoltata ieri dalla VIII Commissione Ambiente della Camera sul tema della produzione e vendita degli shopper biodegradabili nell'ambito della risoluzione 7-00558 presentata dall'On. Angelo Alessandri. Riportiamo di seguito la bozza dell'intervento presentato alla Commissione (fonte AgenParl).
"L’Associazione Italiana delle bioplastiche e dei materiali biodegradabili e compostabili (Assobioplastiche) è nata dalla volontà dei produttori, trasformatori e utilizzatori delle bioplastiche di farsi rappresentare in Italia e all’estero verso le istituzioni e altri attori interessati allo sviluppo di questo settore. Assobioplastiche ha l’obiettivo di promuovere l’utilizzo e l’immagine delle bioplastiche in Italia e di proteggere il settore contro pratiche scorrette e concorrenza sleale.
Per bioplastiche si intendono quei materiali e quei manufatti, siano essi da fonti rinnovabili che di origine fossile, che hanno la caratteristica di essere biodegradabili e compostabili. Il concetto di bioplastica si applica dunque a quei prodotti che nel fine vita garantiscono la loro riciclabilità organica certificata nei diversi ambienti (es. compostaggio, digestione anaerobica, suolo). L’uso di fonti rinnovabili, meglio se provenienti da sottoprodotti e scarti, è parte integrante, ma non sufficiente, di una bioplastica. L’uso di materie prime rinnovabili è possibile anche nella produzione di polimeri tradizionali, per esempio il cosiddetto polietilene verde che si comporta, in fine vita, come quello da fonte fossile e non presenta dunque caratteristiche di biodegradabilità e compostabilità. Questi prodotti possono essere qualificati come “plastiche vegetali”, per evitare confusione con le bioplastiche.
Secondo recenti dati del Consorzio Italiano Compostatori, oltre 100 mila tonnellate di materiali in plastica tradizionale vengono erroneamente conferiti ogni anno sotto forma di sacchi e sacchetti , confezioni di alimenti ed imballaggi vari agli impianti di compostaggio. Questi materiali devono essere rimossi per evitare la contaminazione del prodotto finito, il compost. Tale attività è costosa, non sempre efficace e provoca la perdita di grandi quantità di frazioni compostabili. Inoltre, le frazioni di plastica rimanenti rischiano di danneggiare la qualità finale del compost. L’introduzione e l’uso di manufatti plastici compostabili, a partire dai sacchetti per la raccolta differenziata dell’umido domestico, contribuiscono in maniera determinante ad evitare i costi di eliminazione nel perseguimento degli obiettivi di raccolta delle pubbliche amministrazioni e di commercializzazione di compost di qualità da parte dei compostatori.
Il concetto di oxodegradabilità. I Sali metallici incorporati in una plastica, specialmente quelle da imballaggio, quindi le poliolefine, sono in grado di accelerare la naturale degradazione che queste plastiche subirebbero per effetto di luce, acqua, calore, danneggiamento meccanico da uso. La plastica e’ una materia organica, come la pelle, e come tale non ha un tempo di vita illimitato, ma subisce una lenta degradazione. Il processo di degradazione porterà alla formazione di frammenti che persistono nell’ambiente, anche se non sono piu’ visibili ad occhio nudo. E cosa faranno questi frammenti? Dove andranno a finire? Ed ecco il problema dell’accumulo e della dispersione, dei manufatti prima e dei frammenti successivamente, nell’ambiente e nel mare come bene evidenziato dal recente studio di Legambiente “L’impatto della plastica e dei sacchetti sull’ambiente marino” che indica in oltre 500 le tonnellate di rifiuti in plastica che complessivamente galleggiano nel solo Mediterraneo, con gravi conseguenze dirette per gli organismi marini e indirette per la catena trofica. Ma il problema che dobbiamo affrontare, e che è alla base delle normative che si stanno sviluppando in Italia, in Europa, nel mondo, è quello della riduzione dei rifiuti, di cui gli imballaggi “a perdere” in plastica, per diffusione, leggerezza, economicità, sono una componente importante.
E la riduzione dei rifiuti passa per la strada della riduzione dei consumi prima, del riutilizzo poi, e infine del riciclo, quest’ultimo, a sua volta, inteso come riciclo materiale e recupero energetico, in ordine di importanza. La discarica, nella sua accezione tradizionale di messa a dimora di un rifiuto per un tempo indefinito, in questa visione e’ una opzione destinata a scomparire, o almeno a ridursi drasticamente. Il riciclo meccanico degli imballaggi in plastica, che ne prolunga la vita in altre forme, e quindi ne riduce la pressione sull’ambiente, rimane la strada maestra, dove tante ricerche e soluzioni tecnologiche si sono confrontate, e che consente di recuperare al massimo il contenuto materiale dell’imballaggio, prima di arrivare al destino finale di recupero energetico. Per anni è stato indicato nella stabilizzazione delle plastiche per una più semplice rilavorazione una opzione da sostenere, al fine di garantire un riciclo “nobile” degli imballaggi, un riciclo cioè in cui le proprietà delle plastiche fossero conservate. Oggi si parla invece di questi additivi che attivano la oxo-degradazione delle plastiche, come premessa della frammentazione e quindi della “scomparsa”, attribuendo a questa scomparsa la proprietà del recupero biologico. Non esiste evidenza sperimentale che questi frammenti, nei tempi e nei modi previsti dalla normativa vigente, siano in grado di mantenere quanto promettono. E’ invece vero che tutte le piu’ accreditate agenzie internazionali che operano nel settore delle bioplastiche e del compostaggio, sia spontaneamente sia perche’ interpellate da organismi ministeriali, hanno chiaramente espresso parere sfavorevole alla loro introduzione sul mercato. Anche le associazioni dei riciclatori hanno affermato di vedere in questi additivi un serio pericolo allo sviluppo della filiera del riciclo degli imballaggi in plastica, vista la loro potenzialità di innescare la degradazione delle plastiche non additivate, specialmente nel caso che questi materiali oxo-degradabili conquistino larghe fette di mercato. La migliore forma di riciclo degli imballaggi biodegradabili è quella del compostaggio, in quanto permette all’ambiente di assimilarli completamente, secondo tempi e modi prestabiliti. Bene ha fatto, quindi, il legislatore, sulla scia di quanto indicato dalla comunità europea, a tenere uniti i concetti di biodegradabilità e compostabilità.
L’imballaggio biodegradabile deve essere impiegato, dopo il suo uso come shopper per esempio, a contenere la frazione organica fino al suo conferimento all’impianto di compostaggio, e quindi con essa trasformarsi in ammendante organico. Questa scelta consente di differenziare perfettamente le filiere del biodegradabile e del riciclabile, e consente di nobilitare la plastica da imballaggio non biodegradabile che, da oggetto usa-e-getta, diventa bene durevole, dalle molteplici vite".
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